Lo immagini, ma non riesci a coglierne l’essenza. Lungo l’alto muro del parco della Reggia di Caserta, cominci a prendere coscienza di un respiro lieve, un respiro-donna, un’ipotesi di sogno concreto. Eppure tanti, ancora, ignorano che a pochi chilometri da Napoli, oltre alla Versailles d’Italia, la Reggia di Caserta, appunto, si ‘nasconde’ un gioiello, sorta di casa delle bambole per i figli del re si può pensare. Forse. E invece, no. Certo, c’è sempre voglia di sognare ma, persino quando qualcosa, o qualcuno, è vero, palpabile, non ci si crede. Non ci si crede più o mai più.
Oggi, guidati da quella figuretta danzante, senza età e senza malizia che giocava con il sipario del Teatro di Corte, non vogliamo percorrere il viale della Cascata, non vogliamo rivedere Venere o Atteone, non vogliamo andare a giocare nel giardino dei principini. Vogliamo essere artefici di una riscoperta, ogni volta nuova, vogliamo immaginarci filatrici, setaiole, vogliamo flirtare ad una finestra delle case a schiera, il nostro lui con il mazzetto di fiori tra le mani, per sceglierci a Pentecoste, la danza dei telai a mano negli occhi, il loro minuetto come suono. La ballerina compare e scompare, cocchiera di possibilità. Pochi minuti: forse vorremmo assaporare l’attesa, il disvelamento ma lei, Twiggy, lieve ci spalanca il cancello del suo Regno e disegna nell’aria, parete il monte Briano, verde ed intonso, un nome magico, “Real Colonia di San Leucio”. E vola via: siamo arrivati. Dobbiamo rimanere soli, magari senza parlare, per godere dell’irreale-reale.
Nata, antesignana di utopia, per dar vita ad un insediamento manifatturiero per lavorare la seta, prima sede la Vaccheria, poco più avanti (prima ricovero-stalla per un tipo di mucche pregiate e sperimentali, importato dalla Sardegna), casino di caccia e opificio per la lavorazione dei veli, la costruzione di San Leucio (dal nome del monte accanto), inizia dopo che la Vaccheria viene abbandonata dai sovrani Ferdinando e Maria Carolina. Infatti, proprio lì, per un incidente, muore, 1778, uno dei loro figli, il piccolo Carlo Tito. La montagna di San Leucio era stata acquistata da re Carlo di Borbone nel 1750, nel 1757 Maria Amalia vi fece piantare gli alberi di gelso e l’anno dopo arrivarono i bachi. Con la montagna, il re acquistò anche la dimora – il tutto dei nobili Acquaviva – che verrà, poi, ristrutturata, da Ferdinando e Carolina, tra il 1773 ed il 1774, iniziando dal Salone delle Feste mutato in una grande Chiesa. Poi i quartieri operai ed il Belvedere, diventata casino reale, residenza di caccia. Ed eccoci al 1789: si sente la necessità di avere un Codice che regolasse la vita dei 214 abitanti, portati qui proprio per lavorare tutti i tipi di seta, di cui i più pregiati sono ancora visibili nei saloni del Quirinale, della Casa Bianca, del Cremino. O nelle documentazioni storiche dell’incoronazione di Elisabetta d’Inghilterra che scelse il broccato di San Leucio per il mantello, su disegno di quello di Cangrande della Scala.
Siamo arrivati. Ripassiamo velocemente la Storia e, dunque, non crediamo ai nostri occhi, non crediamo al reale, alla geometria dei luoghi, al Belvedere – Chiesa Madre, agli opifici, alla piazza con la fontana e, di qua e di là, ai due emicicli residenziali dedicati ai due re Borbone, Carlo (poi III di Spagna) e al figlio Ferdinando IV, le casette tutte uguali, ad un piano, qualche lieve sfumatura di colore diverso. Alcune non abitate, ahimè, altre con anziani proprietari, bassa la natalità, ormai, del Borgo. Lo incontriamo: eccolo, il parroco don Battista Marello, inquieto, forte uomo di fede e di arte. Dopo aver dipinto i colori del suo animo, ombreggiati da quelli del suo luogo elettivo, da alcuni anni è artista di forme e di marmi, di pietra e di creatività possente. La scultura ora gli appartiene: in questo mese il Papa inaugurerà la chiesa di San Corbiniano, Roma, architetto Umberto Riva, artefice di tutta la parte artistica, scultorea, lui, don Marello. In corso d’opera, ora, le porte della chiesa Madre di Positano. Eppure, sorta di flash back continuo, non riusciamo a ‘vederlo’ con gli abiti moderni, ma, come nell’annuale ‘Palio della seta’, con i colorati abiti del ’700. Mentre gli studenti della Scuola specialistica di studi giuridici, Jean Monnet, parte della SUN e qui allocata, ci appaiono comparse di un film, un racconto di ieri, ambientato ai nostri giorni. Un miraggio: tale è il borgo di San Leucio, ora del tutto ristrutturato, ma, ahimè, privo della continuità della presenza dei setaioli. Qualcuno della famiglia De Negri, qualcuno degli Alois, ma la manualità non c’è più! Troppo antieconomica, le stoffe sintetiche hanno preso il sopravvento e anche la manodopera femminile, fino a vent’anni fa più numerosa di quella maschile, è scomparsa. Sopravvive l’Istituto d’arte ma la sezione serica sembra quasi un reperto. Poi la ‘Leuciana Festival’, dedicato da anni al Teatro, la convegnistica, i… matrimoni. Ma oggi non vogliamo raccontarvi di un cambiamento ma della Storia. Che, come tale, ha dei punti fissi ma può, deve, essere ‘disponibile’ ad essere rivista o rimessa in discussione. Compagna di viaggio, con coraggiose ipotesi e tesi nuove, intuizioni, Nadia Verdile, storica impegnata a tutto tondo sul fronte dell’insegnamento, Storia ed Italiano all’Istituto d’Arte di Caserta e della ricerca, collaborando con la SUN per Storia Moderna ed in particolare per il ‘segmento’ Storia delle Donne. Attraverso questo approfondimento di genere, dà accurati contributi agli studi e alle pubblicazioni della Fondazione Valerio per la Storia delle donne e alla collaborazione, quasi sempre specifica, a ‘Il Mattino’, redazione di Caserta. Membro della Sis (Società italiana delle Storiche) e della Sisem (Società italiana della Storia dell’Età Moderna), Verdile, pur giovane, dialoga, per così dire, con quella Storia che, con la ‘s’ maiuscola o minuscola, è la sua grande passione: senza dogmatismi accademici, pur non tralasciando mai le fonti. Perché la Storia e, in particolare quella delle donne? Forse perché, molisana da sempre e poi, nata a Napoli, ma cresciuta ad Afragola, a causa degli impegni commerciali di suo padre, si è sempre chiesta quale fosse la differenza di ‘stato’, per una donna, in tre realtà così diverse? “Sono sempre stata curiosa di capire – ci racconta, solare e sorridente -, perché, chi siamo, e come siamo oggi: la vita è, appunto, occasione unica e irripetibile per farlo. Sembra lapalissiano, eppure essa può essere sprecata nella banalità. Indubbiamente ciò che lei dice, ha costituito la base di ogni mio interesse: ma, certo, perché vi era la voglia speculativa della conoscenza. Arrivata all’Università, già Federico II, al II anno chiesi al prof. Aldo Vallone la tesi su una donna. Magari poco studiata. Ed ecco l’argomento: Margherita Sarrocchi, poetessa di Gragnano, secondo ’500, di famiglia molto ricca ma non nobile. Va a Roma da bambina, educata dalle suore, ‘viene data’ in sposa a tal Biraghi, nobile. Si separa presto, forse già innamorata di Luca Valerio, grande matematico nato a Napoli e grande amico di Galileo: furono anni di continui scambi e confronti intellettuali. (Valerio, accademico dei Lincei, per aver formulato tra i primi il concetto di limite, fu espulso per aver difeso Galilei, ndr.). Poi, Romeo De Maio, altro mio professore mi trasmette l’amore per Michelangelo, la sua stima per le donne; poi conosco Adriana Valerio: da lei apprendo il metodo di studio. Un destino? Forse. Credo molto nella forte volontà femminile, nella serietà, nel non voler sfuggire alle responsabilità”.
Ma noi abbiamo scoperto Nadia Verdile per i suoi studi, in particolare, su Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV di Borbone e sull’unicità di San Leucio, certamente ‘creatura’ ferdinandea come fondazione, ma del tutto di Carolina come soggetto-oggetto del Primo Codice, per la vita di una comunità. Codice mai visto, finora, come frutto della cultura e della modernità di Maria Carolina, nata Asburgo, figlia di Maria Teresa d’Austria e sorella di Maria Antonietta, regina di Francia. Eppure tale. Se si pensa che Ludovico Muratori fosse il suo ‘maitre à penser’ e del granduca Leopoldo di Toscana, suo fratello. Siamo in pieno riformismo illuminista. Forse, ora, gli orizzonti si spalancano, cadono. Ci si può permettere di ipotizzare una sterzata alla storia, quella tutta al… maschile. Nel gennaio 1789, nella Stamperia del Regno di Napoli, viene edito in soli 150 esemplari il testo ‘Origine della popolazione di S. Leucio e suoi progressi fino al giorno d’oggi colle leggi corrispondenti al buon governo di essa’: “opera di straordinaria modernità – dice Verdile – che andava a codificare i comportamenti della Real Colonia. Articolato in 5 capitoli e 22 paragrafi – rivoluzione giuridica in chiave di genere – porta la firma di Ferdinando IV, anche se molto probabilmente è espressione della cultura e del pensiero politico di Carolina. E poi, un testo stampato alla chetichella (dalla Lettera del 1°gennaio 1789 di Cosmi, ufficiale della Segreteria reale al Ministro degli Esteri Caracciolo: ‘mi ha detto che non vuole che si sappia’). Eppure si avvertiva la necessità di definire l’ordinamento della Colonia. Il Codice è tutto imperniato sul rispetto dei diritti della donna, che lavorerà e sarà pagata come l’uomo, sull’istruzione, sull’abolizione della dote, merce di scambio. Sulla necessità d’inoculare il vaccino del vaiuolo, prima su sé, Ferdinando e figli, e isolare i vaccinati in ‘una Casa separata totalmente dall’altre in aria buona e ventilata’, visto che la terribile malattia aveva decimato la sua famiglia in Austria. Sino a riconoscere pari dignità e responsabilità di padre e madre nel sostegno e nell’educazione dei figli: se si pensa che, finito l’esperimento ‘socialista’ di San Leucio, si dovrà aspettare il 1975 per vedere riconosciuto questo aspetto nel Nuovo diritto di famiglia, si può ben capire cosa sia stato il Codice leuciano, unico di stampo istituzionale in tutto il mondo!”. Mai, continua Verdile, “viene fatto cenno da Ferdinando alla stesura del Codice: eppure, in quell’anno rimase a San Leucio per curare una fastidiosa blenorragia, scrivendo alla moglie anche 4 lettere al giorno! E se c’è un cenno, è contradditorio – come pensiero – rispetto alle regole del Codice. Inoltre il 20 novembre 1789, lo stesso Cosmi di cui sopra, dette alle stampe un libro di lodi e plausi a Maria Carolina, proprio per il Codice! Poteva mai un maschio, a quei tempi, immaginare la codificazione di una normativa che andava a garantire un’inimmaginabile uguaglianza tra i due sessi? Purtroppo, tutto ciò è dimostrabile solo per ‘comparazione’, per studio della Storia europea, per aver visto quanto Carolina fosse all’avanguardia sino allo scoppio della Rivoluzione francese che decapitò sua sorella. E, così, dopo, la Storia l’ha vista come reazionaria e antigiacobina. Ma non c’è documentazione, andata tutta perduta nell’incendio dell’Archivio, 1943!”. Una sola conferma indiretta della maternità del Codice da parte di Carolina, viene da Eleonora Fonseca Pimentel, quando, in lode della Colonia, scrive di “Ferdinando il Tifate apre e disgiunge /e nobil tera in su l’alpestre vetta / fonda, e l’arti vi chiama (…) mentre Egeria più saggia a sé congiunge / novello Numa (…)”. Bibliografia estesissima, nelle varie pubblicazioni di Verdile, certamente stimolerà nuove certezze. Certo, Carolina non avrebbe mai ‘proclamato’ la sua ‘firma’ sul Codice: conosceva bene le ‘regole del gioco’ e stimolava di continuo il marito ad essere ‘il re’. Poi tutto finisce: il decennio francese privatizza San Leucio che, com’era nata, dura solo 10 anni. La Rivoluzione del ’99 impedisce il sogno di ‘Ferdinandea’, la città del re, del suo nome in eterno.
“Caserta, poi – riflette Verdile – scelta per viverci, come ‘città costruita attorno ad una serie di valori e voleri femminili, una città regale, all’ombra della reggia e all’ombra della leggenda delle fate che aiutarono a trasportare da Calatia (Maddaloni) – racconta Verdile – le pesanti colonne per costruire la cattedrale di Casa Hirta (C. Vecchia). Esse, mi ha detto l’antropologo Ferrajuolo, che cantavano e lavoravano a maglia mentre… volavano con le colonne tra le braccia!”.
E dall’altra parte del’Europa, mentre ci si dibatteva, a San Leucio, sulle… donne e sui loro diritti, ecco nascere, nel centro della Scozia, New Lanark: poteva mai, Verdile, lasciarsi scappare il confronto? Nel 1785 David Dale, tessitore e poi imprenditore, fonda New Lanark, paese sorto per far vivere il suo successivo cotonificio: ma, per far funzionare i filatoi, Dale impiega centinaia di bambini (il ricordo va subito a Dickens), provenienti dalle ‘workhouses’ di Glasgow e di Edimburgo. Coesistono, qui, una serie di contraddizioni: se da un lato, con l’arrivo di Owen, genero di Dale, New Lanark diventa una comunità modello, anche se privata, (scuole, musica, arte, uno dei primi esperimenti di socialismo utopistico), dall’altro Owen proclama che “l’uomo è un prodotto dell’ambiente e che mutando l’ambiente si può mutare anche l’uomo”. Uomo, dunque, come ‘dipendente’? Poi, discostandosi nettamente da San Leucio, Owen fissa regole ‘dittatoriali’ per il matrimonio: “ad ogni coppia convivente – scrive Verdile – era consentito di allevare un massimo di due figli, fino all’età di tre anni. Dopo, i bambini sarebbero stati trasferiti negli Istituti da lui stesso creati (…). Questa organizzazione nasceva dalla evidente superiorità che Owen attribuiva alla vita comunitaria. Oltre che sui parametri di profitto e di produttività. Esseri umani come ‘macchine viventi’! Nel Codice leuciano, invece, la famiglia è posta a fondamento della comunità stessa, e, con la città ed il regno si fondano sull’amore verso Dio. In Owen, operaio, imprenditore, economista, vigono molto teorie di rigore estremizzato, quasi un ‘espropriazione degli affetti – si è detto quacquero – ma è nell’etica dell’illuminismo che si fonda l’incontro di due grandi progetti utopici che hanno avuto il merito di dimostrare che una società degli uguali diritti può e deve essere perseguita”. San Leucio e New Lanark, entrambi patrimonio dell’Unesco: il primo ‘targato’ Borbone, pur splendido, ne paga lo scotto (e la vicenda di Carditello all’asta fa testo… mentre Venaria – Torino – diventa sempre più un gioiello); il secondo, triste e solitario, rimpingua le casse dello stato con migliaia di torpedoni in arrivo tutto l’anno.
Riflettevamo che Ferdinando IV nasce nel 1751, a 160 anni dall’Unità d’Italia, a 260 dalle sue celebrazioni: che sia il caso di ri-leggerlo come ‘marito’ della regina?