Adriana Zatterale racconta la sua esperienza professionale e umana.
L’Espresso napoletano si schiera a supporto di tutte quelle donne che non smettono mai di percorrere salite, che non tentano di sfuggire ai problemi ma li affrontano con tenacia e caparbietà. In onore di queste donne abbiamo intervistato la professoressa Adriana Zatterale, già direttrice di struttura complessa del Servizio di Genetica dell’ASL Napoli 1 e docente delle Scuole di Specializzazione in Biochimica clinica ed in Genetica Medica dell’Università Federico II di Napoli, uno dei pochi se non l’unico biologo a cui è stata conferita la qualifica di Primario Emerito.
Professoressa, come è iniziata la sua passione per la citogenetica?
La risposta potrebbe sembrare strana. Ho frequentato il liceo classico, durante i cinque anni ho avuto la possibilità di approfondire le mie conoscenze letterarie che si sono rivelate molto utili nel corso della mia vita, in quanto è anche grazie alla mia capacità dialettica che sono riuscita a farmi strada in questo mondo. Purtroppo durante gli anni del liceo non ho avuto la possibilità di poter approfondire le mie conoscenze nell’ambito scientifico ed è stata la voglia di scoprire qualcosa che era nascosto ai miei occhi, la curiosità intellettuale di un universo nuovo che mi ha condotto sul cammino della scienza.
Come mai non ha scelto di frequentare la facoltà di medicina e chirurgia?
Avvicinarmi così presto alla sofferenza umana mi sconvolgeva. Ed è per questo che scelsi di iscrivermi alla Facoltà di Scienze biologiche. Dopo la laurea incominciai a cercare lavoro, e dopo due anni presso la Fondazione Pascale da precaria ottenni una supplenza in immunoematologia al Vecchio Pellegrini, fu questo il momento in cui la mia strada si incrociò con quella della genetica e da allora non l’ha lasciata più. Lavorai con il professor De Biasi, un uomo molto lungimirante; da pochi anni in America era stato scoperto il cromosoma Philadelphia, lui mi propose una sfida: tirar fuori il cromosoma Philadelphia dal midollo dei suoi pazienti leucemici. Era una sfida per l’epoca ma la curiosità per il nuovo, per l’ignoto, mi spinse ad accettare ed è così che traendo ispirazione da quel piccolo cromosoma mi appassionai allo studio del cariotipo. Mi resi conto fin da subito che nell’ambito sanitario c’era una grande discrepanza tra medici e biologi, a questi ultimi purtroppo venivano riservati ruoli subalterni e così decisi di iscrivermi alla Facoltà di Medicina. La vita però riserva sempre molte sorprese e dopo aver sostenuto svariati esami ebbi la possibilità di iscrivermi alla Scuola di specializzazione in Genetica medica presso l’Università La Sapienza di Roma. Era allora l’unica Scuola di Genetica in Italia, aperta oltre che ai medici anche a qualche biologo.
Quale è stata la sensazione che ha provato nel vedere per la prima volta un cromosoma?
È stato come tuffarsi in un mondo nuovo, in quella piccola immagine era nascosto un universo sconosciuto. Era incredibile pensare come in qualcosa di così piccolo si potesse racchiudere tutta la nostra essenza! Ho sempre terminato le mie lezioni agli studenti con una visita al Servizio di Genetica in cui ho mostrato loro i cromosomi perché sono convinta che le cose non devono restare astratte, teoriche, ma l’esperienza sul campo è ciò che distingue uno scienziato da uno studioso. Ogni volta li vedo sempre lì incantati dal fascino dell’ignoto e riprovo quelle stesse emozioni che ebbi anche io quando li vidi per la prima volta.
Quali sfide ha dovuto affrontare nel corso della sua carriera?
Non sono state sfide scientifiche, bensì di tipo umano. Ho sfidato innanzitutto me stessa e le mie capacità e sono felice di ciò che sono riuscita a realizzare. Non ho mai avuto mete ambiziose, ho semplicemente fatto ciò che desideravo, ciò che mi rendeva soddisfatta e che sarebbe stato utile anche per gli altri. Se non fosse stato così non mi sarei mai potuta alzare la mattina e andare a lavorare lasciando una figlia piccola anche quando stava poco bene. Inoltre il desiderio di indipendenza è stato una grande forza motrice nella mia vita! Il problema più grande da affrontare credo che sia stato essere donna, dover vedere tutti i giorni persone che invece di leggerti dentro e valutare le tue capacità pensavano al tuo aspetto fisico, è limitante per chi, seppur fiera di essere donna, sul lavoro vuole essere trattata come una persona asessuata, vuole essere considerata semplicemente un professionista.
Quale crede sia stato il segreto del suo successo?
La tenacia, la voglia di andare avanti e di vincere le sfide, anche se sono sempre stata una persona che ha proceduto a piccoli passi. Mi sono sempre chiesta: di quali risorse dispongo? le mie energie sono adeguate? Non sarebbe stato utile fare voli pindarici. Il mio scopo non è stato quello di “fare carriera”, ma di realizzarmi, per quanto possibile, sia come professionista che come donna, con l’obiettivo di essere utile alla mia famiglia, alla comunità dei colleghi e a quella dei pazienti. Oggi guardando indietro penso che la vita è come percorrere un sentiero di montagna in cui ci sono sassi, rami da schivare e nel frattempo devi cercare di non guardare nel burrone che sta lì affianco a te e ti accompagna durante il percorso. Quando arrivi in cima ti guardi indietro e ti chiedi come hai fatto a fare tanta strada, ma se procedi a passo costante non arrivi stanca alla fine della salita.
Questa grande forza che la contraddistingue da dove deriva?
Certamente dall’educazione ricevuta dai miei genitori e dalla condivisione degli ideali di vita con un ottimo compagno. Ma la forza più grande me l’ha sempre data mia figlia, questo è il paradosso di noi donne, trovare forza nuova nello sforzo di conciliare il ruolo di madre con quello professionale. Quando la vidi la prima volta è stato come rinascere, ricordo perfettamente quel giorno. Nel momento in cui il mio sguardo ha incrociato il suo è stato come se tutte le insicurezze del passato venissero fugate semplicemente dalla sua presenza. È stata un’emozione indescrivibile, unica al mondo. La sua nascita è stata motivo di grande gioia e al tempo stesso dolore provato nei giorni in cui dovevo andare a lavorare e lasciarla alle babysitter anche se lei non stava bene. Ma la sua sola esistenza mi ha sempre dato una grande forza, unica e inattesa.