Sciuscià – La Recensione

In questo film Vittorio De Sica denuncia un’istituzione corrotta e figure genitoriali inesistenti, evidenziando l’umanità di piccoli sciuscià che, indaffarati in azioni illecite, tentano di raggiungere il loro cavallo bianco, il diritto ad avere un’infanzia.

‘Sciuscià’ è un film scritto e diretto da Vittorio De Sica, uscito nelle sale cinematografiche italiane nell’anno 1946. Il titolo della pellicola è il termine napoletano utilizzato per indicare bambini dai sette ai dodici anni che dopo la guerra vivevano nei quartieri napoletani prestando umili servizi, come lustrare le scarpe ai soldati angloamericani. I ‘sciuscià’ sono anche ragazzi scaltri, furbi, coinvolti nel mondo angusto e ingarbugliato degli adulti e nei loro traffici illeciti, dai quali non si salvano Pasquale e Giuseppe, due bambini che per guadagnarsi da vivere svolgono il mestiere di lustrascarpe, lavoro che non permette loro di realizzare il sogno di acquistare un cavallo bianco.

Consapevoli di non possedere il denaro necessario accettano l’aiuto di uomini poco raccomandabili. In un batter d’occhio i due si trovano coinvolti in un furto a casa di una cartomante, presso la quale si trovavano per vendere coperte americane su commissione del loro capo. La conseguenza di tale azione è l’arresto, che non avviene prima di aver acquistato il cavallo. Una volta giunti al carcere, Pasquale e Giuseppe sperimentano la durezza della vita, il mal funzionamento di un’istituzione che dovrebbe garantire loro l’opportunità di reintegrarsi in una società sciagurata, ma che invece è sottomessa a un sistema corrotto che non fa sconti nemmeno a dei bambini.

“[…] Quella di Sciuscià e di Paisà fu un’epoca sciagurata. Grazie a Dio quei film sono spariti. Per fortuna sono rimasti in pochi a commuoversi per i lustrascarpe.”

 –  Riccardo Freda

Nella descrizione degli eventi del carcere, De sica con il suo tocco neorealista, tenta di portare a galla tematiche in qualche modo collegate: il riconoscimento e la consapevolezza della dimensione individuale di Pasquale e Giuseppe – in questo caso parliamo di una condizione puerile – con quella collettiva di una massa di adulti impaurita dal potere corrotto e severo che li governa. La paura di questi adulti è la conseguenza dell’effetto soffocante di un’ideologia che cerca di annientare anche quella briciolo di buona intenzione, che emerge, ad esempio, tra il direttore del carcere e il suo collaboratore.

Le parole pronunciate dal direttore sono queste:

“Lo dico per voi, questo è un carcere, non un asilo, con questi principi rimarrete per sempre un’assistente”.

Il servilismo triste verso cui tutti gli adulti di questo film tendono, per ricevere un miglioramento o un vantaggio, con la speranza di raggiungere quella tanto bramata posizione di superiorità, sembra contrapporsi alla solidarietà di quei poveri ragazzi. Nella scena finale, assistiamo alla proiezione di un film sulla guerra nel Pacifico e immediatamente dopo a delle scene di un film comico. Ma non si intravedere un mezzo sorrido, un cenno di felicità o di emozione, solo volti imperturbati e indifferenti, segnati da una lieve tristezza nata dalla consapevolezza che nemmeno più il cinema è sufficiente ad alleviare il loro malessere.

Durante la visione del film, Giuseppe con un altro compagno evade, e Pasquale temendo di perdere il cavallo rileva al personale del carcere dove si trovano i due evasi, conducendoli proprio alla stalla. A questo punto la lite fra Pasquale e Giuseppe è inevitabile: presso un ponticello si consuma il dramma della loro amicizia, la quale si conclude con la morte di Giuseppe che per errore sbatte la testa. Un finale crudo, che non lascia spazio all’immaginazione e nemmeno alla speranza.

Nel pianto disperato di Pasquale compare il cavallo che si allontana occultamente a piccoli passi. Ed ecco che vediamo scomparire sullo schermo il docile animale, il nocciolo poetico, l’unica speranza di raggiungere la felicità per i due ragazzi. Il cavallo, non a caso bianco, è simbolo di un’infanzia strappata, della gioia fanciullesca che Giuseppe e Pasquale riescono a provare solo stando in sella a quel cavallo. Ma alla morte di Giuseppe l’animale si eclissa così come il diritto alla felicità di questi due sciuscià.

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