Un luogo quasi nascosto ricco di tesori apre le porte alla città, unendo Ebrei e Napoletani.
La storia della cultura ebraica a Napoli in epoca odierna ha la sua data d’inizio convenzionale nel 1863, con la prima celebrazione liturgica documentata. Tuttavia, le attestazioni semitiche rimontano al primo secolo e si sviluppano a fasi alterne, a seconda dei momenti ora di minore ora di peggiore integrazione permessi dal potere di turno. Strade legate alle arti e mestieri particolarmente praticati dagli Ebrei ne suggeriscono la permanenza, pur se la mancanza di evidenze e il Risanamento hanno cancellato la Giudecca, il quartiere-ghetto maggiormente frequentato dal Medioevo all’età moderna. Nel 1541 un provvedimento di espulsione allontanò gli Ebrei da Napoli; vi furono riammessi soltanto per un settennio sotto il regno di Carlo di Borbone, e poi nell’Ottocento, quando la famiglia di banchieri Rothschild fondò la sua filiale napoletana e borbonica, ponendo le premesse per la nascita dell’attuale comunità, con l’Unità d’Italia e la libertà religiosa. Eppure, la permanenza ebraica è stata sempre radicata in città, testimoniata ad esempio da viaggiatori come Beniamino de Tudela, che già dal XII secolo indica la presenza di cinquecento unità ebraiche, con un proprio rabbino ed una scuola.
Tutta questa storia sembra essere passata in sordina, come conservata tra le pareti dell’ebraismo stesso, estranea o quasi alle generazioni di Napoletani attuali. Eppure, da punti nevralgici, gli Ebrei hanno sempre costituito una componente fondamentale della stessa napoletanità. Anzitutto alimentandone commerci e banche per secoli, poi segnandone il volto moderno, con la prima pseudo-sinagoga nell’attuale Villa Pignatelli, al tempo residenza dei Rothschild. Ed ancora con il formidabile esempio di Giorgio Ascarelli, fondatore e primo presidente della squadra del Napoli nel 1926, nonché dello stadio Vesuvio (tutto in legno) distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
La cultura ebraica è tuttavia modellata sul suo passato, che le ha imposto pregiudizi, così come la filosofia della transitorietà e dell’introversione. Il primo è il filo antisemita secolare, poco più che una volgare superstizione, che la tradizione vuole riguardasse anche il re Carlo III, intimidito alla cacciata ebraica per poter concepire un erede maschio. Il secondo è invece una particolarità culturale, che ha abituato alla non visibilità sulla strada delle sinagoghe e all’abitudine di costruire verso l’alto, non potendo oltrepassare il ghetto. Ciò ha determinato l’inesistenza, fino all’epoca moderna, di un vero e proprio stile architettonico sinagogale, ora ripreso dalle chiese cattoliche, ora dalle più generiche e laiche sale assembleari, spesso con decorazioni in legno, segno dell’effimero. La sinagoga di Napoli, con sede a Palazzo Sessa a Chiaia, sebbene libera è anch’essa ‘nascosta’, o meglio assai poco visibile, mantenendo la tradizione della collocazione assorbita in uno stabile. Tutti i suoi arredi o quasi sono eredità Rothschild; al centro campeggia un armadio, l’Aron, al cui interno sono custoditi i rotoli della Torah, la legge e la base della fede semita.
Oggi come un tempo, la sinagoga si anima nella funzione dello Shabbat, il sabato del riposo che è calcolato non sulle 24h, ma naturalmente, dallo spuntare al tramontare delle prime tre stelle vespertine del venerdì. Del 1838 è il primo segno d’integrazione reale a Napoli, con le attestazioni anagrafiche contrassegnate dall’assenza di battesimo. Agli inizi del Novecento, la comunità è ormai di nuovo stabile: guantai, mercanti tessili, distillatori di marsala, dattilografi, ma anche i fondatori del primo cinema nella Galleria Umberto. Ma il momento più forte dell’integrazione napoletano-ebraica è sicuramente legato alle vicende belliche. Anzitutto con le leggi razziali. La prima destinazione è il campo di lavoro di Tora e Piccilli, nel casertano, i cui abitanti, che non avevano mai visto un Ebreo, credevano si trattasse di chissà quale diversità. Ma una volta giunti lì gli Ebrei furono accolti gentilmente e mai costretti al lavoro, se non quando il campo era monitorato dalle autorità nazi-fasciste. Inoltre, l’allora prefetto di Napoli tardò volontariamente nel consegnare le liste di Ebrei destinati alla deportazione all’estero, subodorando l’aria di un’insurrezione popolare. Le Quattro Giornate, infatti, salvarono la comunità ebraica impedendo la partenza dei treni da Napoli. Ciò può leggersi come l’atto di nascita morale dei napoletano-ebrei.
Oggi la sinagoga di Napoli è di riferimento per l’intero Sud con duecento iscritti, e oltre alle funzioni sacre accomuna gli Ebrei su ogni piano della loro vita privata, così come accoglie chiunque per visite guidate, impartisce corsi di cultura ebraica nelle scuole e ne ospita una al suo interno, per ora limitata ai soli bambini ebrei. Inoltre, la comunità partecipa alle più disparate manifestazioni civili e culturali, come la Giornata Europea della Cultura Ebraica, in settembre. Detta comunità si autogestisce grazie alle quote d’iscrizione e all’8×1000, ridistribuito da Roma nelle altre venti sedi italiane. Al suo interno custodisce un archivio storico, una biblioteca fornitissima che comprende volumi in lingua ebraica e italiana, attualmente in fase di inventariazione nell’OPAC nazionale ed aperta al pubblico. Collabora con svariate associazioni del territorio e promuove la cultura ebraica, oltre ad organizzare presentazioni di libri, conferenze, concerti, un bazar annuale di beneficenza e tanto altro. La comunità ebraica, oggi, non è a Napoli, ma di Napoli, fatta di Ebrei Napoletani per Napoli e per l’ebraismo.
Per saperne di più:
La Comunità Ebraica di Napoli, 1864/2014, centocinquant’anni di storia.
a cura di Giancarlo Lacerenza
Giannini Editore, 2015 (disponibile presso la comunità)
Per info: napoliebraica@gmail.com www.napoliebraica.it