Se anche l’ambiente non fosse illuminato, “Elena”, al centro della parete, riuscirebbe ugualmente a diffondere luce.
È questa la sensazione immediata che si prova entrando nella Sala n° 8 del Museo del Novecento (1910-1980), in Castel Sant’Elmo, potendo finalmente vedere, circondata da opere di pittori a lui contemporanei, tra cui i suoi maestri, Gaudenzi, Maccari, Notte, Monteleone, la straordinaria opera che Gal, Giuseppe Antonello Leone, irpino, 1917, ha appena donato.
“Per il Museo ‘in progress’, come avrebbe dovuto chiamarsi – dice la Direttrice Angela Tecce – la scelta è stata davvero difficile perché il museo ‘raggela la vita’ degli artisti. Tutto lo studio di Leone meritava di essere qui, poi mi sono detta di cominciare con un’opera ‘storica’. Ed eccola, molto bella dal punto di vista figurativo e testimone del periodo”.
La tela ritrae Elena Ferro, leggendaria modella per pittori e studenti dell’epoca, che Gal, ancora all’Accademia di Belle Arti di Napoli, ove concluderà gli studi nel ’40, dipinse a 21 anni, 1938.
“Elena”, o della luminosità; “Elena”, o dell’incarnato di madreperla. Nel riflettere sulla giovane – eppur matura artisticamente – età dell’autore, risiede l’unicità di ogni sua opera successiva.
”Elena”: dal grande amore con lo studioso cinese Fu Luopei, arrivato a Napoli con una borsa di studio, nasce, 1936, Toni Ferro, artista attivo poi nel sud, scenografo e contiguo al Gruppo Anarchico del Teatro Comunitario, nato nel ’68. Dopo aver insegnato Scenografia all’Accademia di Catanzaro, ne diventa Direttore. Morirà nel 2004.
Figli di Toni Ferro, Hermes, professore all’Accademia di Palermo e Tsao, archeologo.
Dunque la vita di Gal e di Elena Ferro, intrecciata, sembra una favola. Proiezione di una lanterna magica orientale o della voce del cantastorie che, per valli e per monti, narrava poetiche di amore. Qui, la bella storia di due famiglie di artisti, che, come ha raccontato Patrizia di Maggio, della Soprintendenza speciale per il Patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico di Napoli, già curatrice della singolare Mostra di Leone, “Fantasmi di Napoli”, sorta di “monacelli” usciti dallo stradario della città, maggio 2013, Palazzo reale di Napoli, “è anche un ponte tra Italia e Cina.
Gal, poi – molte le tesi di laurea su di lui – si è fatto rabdomante di arte in ogni ricerca, partendo anche dalla figura paterna, Nicola, ebanista e primo naif della Campania, “presente” anche in quest’opera, con la sua bella cornice artigianale in castagno, oggi vista con un lieve intervento restaurativo del giovane Christian Del Gaudio.
Perché se “Elena” è omaggio di Gal all’arte italiana, i Leone di oggi, come si é visto anche dall’accurato video di Pino Miraglia e come ha scritto Philippe Daverio nei vari libri e cataloghi per alcune Mostre di Giuseppe Antonello Leone, sono tutti artisti. E questo, ancor più, fa la Storia.
A cominciare da Maria Padula, sua moglie, pittrice neorealista e scrittrice, scomparsa nel 1987. Sodali con i Levi, gli Scotellaro, i Sinisgalli, ma impegnati anche nel sociale, insieme con tutti i meridionalisti, sin dalla “Lotta contro l’analfabetismo in Lucania”. Per continuare con i figli.
Da Giuliano, architetto-urbanista-docente universitario ma anche raffinato disegnatore, a Silvio, delicatissimo pittore, a Bruno, architetto e guarattellaro, il “Pulcinella” più famoso del mondo, ricerca e tradizione, sino a Rosellina, biografa-archivista di famiglia, volta a volta collaboratrice e primo attore con suo padre, dal Teatro delle Ombre ai laboratori creativi di ogni genere di oggetti, che, sottolinea, “come ‘Elena’ sia un pezzo di storia culturale di Napoli. Fonte di memoria, é importante che oggi questo quadro sia al Museo del Novecento, proprio mentre il nostro mondo si va sgretolando” .
“Elena”, stimolo anche per la lettura di insolito artista che, “fatti salvi gli studi in Accademia, direzionati”, ha davvero attraversato ogni corrente. Dai ritratti-sculture o raffigurati nei dipinti, alle “Risignificazioni”, interventi sui materiali di riuso o su oggetti trovati per caso (i Topoi), intervenendovi, poi, a colpi di scalpello. Mentre racconta, sornione, “Non sono io che li ho creati, erano loro che mi guardavano”. Sino alle “pietre”, che prendono forme antropomorfe, come “l’Omero” del Museo archeologico e mille altre.
Dal primo graffito, 1965, alle “Appese”, grandi teli bianchi vergati dalle sue poesie. Pubblicate. Perché Leone è anche un lirico, trovando linfa nella vita, nella natura, nella società, mentre scrive, “persi la via/tra rovine di sogni/trovai solo le mie mani/lacere/gli occhi smarriti/mani piene di piastrine/di nomi immortali/inutilmente allineati/tra i fiori dei prati”. E se sino ad oggi ha esposto in tutto il mondo, sembra quasi irreale la sua partecipazione alla Biennale di Venezia, 1940, con “Le nuove città”, lui socialista, opera “segnalata” in pieno “regime”, oggi alla Rocca dei Rettori, a Benevento. Passando dalle opere “pubbliche”, 1961, allestimento del Padiglione IRI a “Italia 61” a Torino, esponendo la Dea Trifase, oggi in Piazza del Pittore a S.Giorgio a Cremano. Donata, come lo strepitoso “Gallo”, in bronzo anch’esso, che lancia il suo richiamo dalla monofora di Castel dell’Ovo che guarda la nostra città.
Non si contano, prima degli anni ’60 e dopo, le opere nelle chiese del sud, tele ed affreschi, per arrivare alle porte del Duomo di Messina e al “Cerimoniere” del Museo Pitré di Palermo. Poi, l’unicum italiano, la fondazione della prima Scuola del graffito, 2003, a Montemurro (Potenza).
Pronuba di ogni tipo di sperimentazione, lui novello artista rinascimentale a 360°, “Elena”, cui, è certo, ogni donna vorrebbe assomigliare, luce e madreperla di Storia.