Amato, celebrato, inseguito, corteggiato, ed al contempo spesso allontanato dalla critica, Antonio de Curtis, a cui è stato dedicato il Maggio dei monumenti 2017, è tutt’oggi vivissimo a distanza di cinquant’anni dalla sua scomparsa. Perfino chi lo aveva snobbato per il cinema d’autore — lasciandogli dire amaramente che questo fosse un Paese dove serve morire per vedersi riconoscere — attribuisce oggi a Totò un ruolo cinematografico squisito ed una valenza sociale che va oltre il metraggio di una pellicola.

Recentemente è stato anche insignito della laurea honoris causa in linguaggi cinematografici, concessa dall’Università “Federico II”. Eppure, questa ribalta è solo la punta di iceberg di tutto quello che l’artista ha lasciato nell’animo dei suoi ammiratori, dalla Sicilia alle Alpi, e che ha ragioni molto più intime e personali che meramente cinematografiche. Anzitutto, un anti-divismo ed un’empatia tra il pubblico e l’artista, che, mostrandosi sempre “Totò”, anziché quello o quell’altro personaggio, sapeva orientare la sua maschera permanente verso uno o più aspetti del medesimo fascio di emozioni e linguaggi, che esprimevano, sostanzialmente, tutti gli stati d’animo umani possibili.
Dalla sconfitta alla gioia, dal dolore alla passione sensuale, al senso di rivalsa sociale dello squattrinato che ambisce a divenire “signore” e mai un volgare miliardario. Totò stesso sapeva di aver fatto una grande quantità di film non sempre all’altezza delle sue aspettative — diceva di poterne salvare a stento pochi — quasi vittima di quella convinzione detta sociologicamente “volontarismo magico”, ovvero la sensazione indotta — per lui dalla critica — di essere responsabili dei propri insuccessi e della propria insoddisfazione. Dall’altra parte, l’immenso amore popolare di tutta quella platea comune, che in Totò trovava l’esorcismo delle proprie difficoltà e la ricetta del sorriso. In più, un codice di linguaggio comune, un frasario di citazioni e versi sempre pronti all’uso, utili — per dirla in soldoni — tanto a incoraggiarsi nelle difficoltà sul lavoro quanto a ricomporre un litigio cominciando da una sua battuta. Chi di noi non l’ha mai fatto?
E in questo, Totò è inventore di una napoletanità che lo ha anche inventato. Il suo ruolo, l’Antonio de Curtis che diviene “Totò”, è quasi l’anagramma concettuale di don Fastidio, celeberrima maschera teatrale della Napoli settecentesca, detto anche farsescamente Fastidio de Fastidiis. Una maschera, un tipo, che diversi attori incarnarono generazione dopo generazione. Il più celebre fu Francesco Massaro, morto nel 1768, assimilato a don Fastidio esattamente come de Curtis a Totò, senza più margini tra persona e personaggio. Sorprende la descrizione così simile al carattere del “Totò” che ne fa un osservatore del tempo, Salvatore Palermo, al punto da inserirne la figura nella più celebre guida di Napoli del tempo, ambasciatrice cittadina nelle mani dei viaggiatori del Grand Tour di mezza Europa, e — va ricordato — in un’epoca in cui la figura dell’attore, particolarmente comico, era reputata poco più che un saltimbanco: «Quivi recitò [al San Carlino]per lunghi anni il celebre don Fastidio, comico che diè al teatro un nuovo carattere del suo proprio nome. Era questo di un letterato sciocco, ma sostenuto con tal gravità che riusciva ammirabile.